articolo "Il gesto e l'attore" |
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IL GESTO E L’ATTOREdi Elisa ContiTra gli esercizi che l’attore compie durante le prove ce n’è uno che ha lo scopo di esprimere una parola, meglio, un verbo, attraverso una sequenza di gesti. L’esercizio viene ripetuto più volte, alla ricerca di qualcosa che esprima il significato di quella parola, quel verbo. La replica dell’esercizio non avviene sotto la guida dalla mente, che stabilisce ciò che il corpo deve fare. Come suggerisce Victor Turner: «La coscienza deve essere ristretta, intensificata, orientata su un centro d’azione limitato»; non irrigidita o ridotta, ma ripulita della «coscienza riflessiva», che fa incespicare l’attore in quanto crea una frattura nel «ritmo della conoscenza». Si tratta di una ricerca fisica, del lavoro del corpo che ascolta, si ascolta, pazientemente agisce e re-agisce fino ad essere mosso nella produzione del gesto che perde meccanicità e acquista naturalezza. Turner parla di perdita dell’io: «Il sé, che normalmente è l’intermediario fra le azioni di un individuo e quelle di un altro, diventa del tutto irrilevante»; e ancora esprime il concetto di flusso come «condizione in cui un’azione segue all’altra secondo una logica interna che sembra procedere senza bisogno di interventi consapevoli da parte nostra». La ripetizione costante porta ad una progressiva pulizia, semplificazione, precisione del gesto. Anziché aggiungere, la ripetizione lavora in riduzione finché l’espressione si condensa. Dice Peter Brook: «il metodo adottato nella ricerca non può essere un processo di addizione, ma di sottrazione, spoliazione, che può essere compiuto soltanto alla luce di una costante». Questa operazione è in genere tanto potente che la persona ne è scossa, toccata fino ad esprimere con il pianto la forte emozione. «Gli esercizi quotidiani sono una continua preparazione allo shock della libertà […]. Il danzatore […] affrancato dalla concentrazione sull’esecuzione, può lasciare il movimento libero di svilupparsi in un’intima relazione con l’andamento della musica» (Brook). Il gesto così ripulito diventa ricco, potente, espressione piena e semplice della sua essenza. «Rendere Visibile l’Invisibile» dice Brook, e asserisce: «Si può anche tessere intorno al direttore d’orchestra il culto della personalità, ma sappiamo perfettamente che non è certo lui a fare la musica, bensì è la musica a passare attraverso di lui; se il direttore d’orchestra è rilassato, aperto e in sintonia, allora l’invisibile prenderà possesso di lui e, per il suo tramite, raggiungerà noi». Poi mette in guardia: «Possiamo tentare di cogliere l’invisibile ma senza perdere il contatto con il buonsenso […]. Dobbiamo prendere atto che è impossibile vedere l’invisibile nella sua totalità. Dopo averlo cercato con tutte le nostre forze, dobbiamo accettare la sconfitta, ridiscendere sulla terra e ricominciare». Eppure, quando va in scena, il corpo conserva memoria di quanto prodotto attraverso il continuo e paziente lavoro; così l’attore in stato di grazia nell’interpretazione del personaggio diventa espressione lucida e limpida del gesto, provocando nello spettatore l’emozione del contatto con l’invisibile. Bibliografia: Victor Turner, Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 1986. Peter Brook, Lo spazio vuoto, Roma, Bulzoni, 1998. |
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